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23 luglio 2022

Deposizione di Primo Levi per il processo Bosshammer

 




Tribunale di Torino, lunedì 3 maggio 1971


Primo Levi, nato a Torino il 31.7.1919, residente a Torino, Corso Re Umberto 75.


Sono stato arrestato nel dicembre 1943 dalla milizia fascista, in seguito a una delazione. L’azione della milizia fascista non era diretta alla cattura degli ebrei, ma di un gruppo partigiano di cui io facevo parte. Dopo l’arresto sono stato interrogato dalla milizia stessa e dalla polizia italiana; nel corso di questo interrogatorio ho dichiarato io stesso di essere ebreo. In seguito a questa mia dichiarazione, sono stato inviato al campo di raccolta di Fossoli, presso Carpi. Il trasferimento al campo di Fossoli ebbe luogo verso la fine del gennaio 1944.

A quanto mi risulta, in quel momento il campo di Fossoli si trovava sotto l’amministrazione della polizia italiana. I nostri rapporti con i funzionari della polizia italiana erano discreti. A nostra domanda, essi ci assicurarono piu’ volte che il campo sarebbe rimasto sotto amministrazione italiana e che non saremmo stati ceduti all’autorita’ tedesca. Non posso dire con precisione quando le autorita’ tedesche sono subentrate a quelle italiane nella direzione del campo: ricordo pero’ di avere visto per la prima volta uomini delle SS il giorno 20 febbraio 1944; posso garantire questa data perchè subito dopo il mio ritorno ho scritto appunti destinati ad essere inclusi in un libro. Questo libro porta il nome italiano "Se questo è un uomo". Il giorno 20 circa, ho visto per la prima volta personalmente un gruppo di quattro o cinque SS; non ricordo il numero esatto. Che fossero appartenenti alle SS lo posso dire con precisione, perchè gia’ a quel tempo conoscevo la differenza tra le uniformi della Wehrmacht e quelle delle SS.

Secondo i racconti di alcuni miei compagni di prigionia, questi militari delle SS erano gia’ presenti al campo da qualche giorno, ma io li ho visti per la prima volta verso il 20 febbraio. Non posso dire quali fossero i loro gradi, ma posso affermare che almeno uno di loro era un ufficiale, perchè ho udito che assegnava ordini agli altri. Non ho potuto osservare se era arrivato insieme con gli altri o no. Questo ufficiale ha scambiato qualche parola in tedesco anche con noi: si serviva occasionalmente anche di qualche parola italiana e ricordo di averlo udito dire, rivolto agli altri, in italiano: «Campo grande, legna niente»; nella sua intenzione questo era un rimprovero per l’amministrazione precedente del campo. Da questa sua frase abbiamo tratto qualche speranza sul nostro futuro destino. Mi sono state mostrate alcune fotografie dall’imputato Bosshammer, ma non sono in grado di riconoscere in queste immagini alcune delle persone viste allora. A quanto mi ricordo, al momento del mio arrivo nel campo di Fossoli, gli ebrei italiani era da 100 a 200; il loro numero aumento’ poi rapidamente, e raggiungeva la cifra di 650 al momento della deportazione. Poco prima del 20 febbraio giunse a Fossoli un gruppo di ebrei proveniente dalle Carceri Nuove di Torino. Non posso dire se essi furono condotti a Fossoli da italiani o da tedeschi. Non posso neppure dire se insieme con le SS giunse a Fossoli un gruppo di 60 fino a 80 ebrei. Non posso dire con precisione se gli arrivi furono piu’ frequenti nella seconda meta’ di febbraio, ma ricordo che circa quindici giorni dopo il nostro arrivo un gruppo di ebrei appena arrivati dovette dormire per terra una notte perchè mancava posto per ospitarli.

A quanto ricordo, i circa 400 ebrei che giunsero a Fossoli durante il mio soggiorno sono arrivati a scaglioni. Formalmente l’amministrazione del campo era rimasta in mano italiana, ma avemmo subito l’impressione che il comando effettivo fosse passato ai tedeschi; infatti la sera stessa del 20 febbraio un soldato delle SS da noi interrogato disse che saremmo partiti l’indomani o il dopodomani. Erano queste, forse, le prime parole tedesche che sentivo. Il tedesco che pronuncio’ questa frase era un soldato semplice. Dopo l’annuncio della partenza le condizioni interne del campo non cambiarono, ma la guardia esterna fu rinforzata. Da parte tedesca, non posso dire da chi personalmente, venne dichiarato che se uno di noi fosse fuggito, dieci sarebbero stati fucilati. Il mattino del 21 febbraio alcuni di noi chiesero ai soldati delle SS se avremmo dovuto o potuto portare con noi le nostre cose. Ci risposero che saremmo stati trattati bene, ma che il paese di destinazione era freddo; percio’ ci consigliarono di portare via tutto quanto possedevamo, denaro, oro, gioielli, valute e particolarmente pellicce, coperte ecc.

Chiedemmo ai soldati delle SS qual era la nostra destinazione e che cosa sarebbe avvenuto di noi, ma ci risposero che non lo sapevano. Le SS possedevano pero’ un elenco alfabetico, poichè al mattino del 21 febbraio ebbe luogo un appello a cui i singoli dovevano rispondere: «Presente». Ricordo con precisione il numero degli ebrei deportati, che erano 650, perchè al termine dell’appello un tedesco disse: «650 Stuck, alles in Ordnung». Non ricordo chi esegui’ l’appello, se cioè l’ufficiale o i soldati. Sono sicuro che la partenza avvenne il 22 febbraio, non solo in base a quanto ho scritto nel libro citato , ma anche in base a una lettera di cui conservo copia, che io scrissi subito dopo il mio rientro in Italia ad alcuni miei parenti in America. Non ricordo se dopo l’arrivo dei tedeschi abbiano avuto luogo contatti da parte nostra con la polizia italiana del campo allo scopo di evitare le deportazioni.

Nei giorni precedenti avevamo cercato di ottenere qualche assicurazione contro la deportazione, ma non avemmo che qualche promessa molto vaga, dalla quale si capiva che non avevano voce in capitolo. Dopo l’appello venimmo caricati su alcuni pullman, insieme con i nostri bagagli, e portati dal campo alla stazione ferroviaria di Carpi. Le SS erano con noi, i nostri bagagli erano sul tetto del pullman, e all’arrivo alla stazione un soldato delle SS mi ordino’ di salire sul tetto per scaricare i bagagli; a quel tempo io non comprendevo i tedeschi e non capii questo ordine; il soldato mi percosse e mi obbligo’ con la violenza a salire sul tetto. Mi pare di essere stato trasportato da Fossoli a Carpi con uno dei primi pullman. Non posso dire se questi pullman fecero un viaggio solo o piu’ viaggi da Fossoli a Carpi e viceversa. Quando giunsi alla stazione di Carpi, mi pare di ricordare che il treno era ancora quasi vuoto. Secondo l’intenzione dei tedeschi, i vagoni avrebbero dovuto essere occupati per ordine alfabetico, a partire dal primo; riuscimmo pero’ in certa misura a evitare questo ordinamento, in modo da non separarci da alcuni amici. Mi pare di ricordare che il mio pullman parti’ da Fossoli verso le 10 di mattina. Il treno fu completamente occupato verso le 14, ma non parti’ che verso le 18. Molti prigionieri che volevano ricongiungersi in altri vagoni con amici o parenti furono percossi rudemente.

Quest’ordine dei tedeschi, di occupare il treno per ordine alfabetico, venne fatto rispettare con grande durezza anche quando in questo modo si venivano a separare gruppi familiari in diversi vagoni. Io venni percosso con calci e col calcio di un fucile. Un mio collega, che tentava di cambiare vagone, venne sbattuto contro il montante del vagone, e ferito alla fronte, tanto che giunse ad Auschwitz ferito, con la ferita ancora aperta. Il treno era composto da dodici vagoni merci, ciascuno dei quali era occupato da 45 fino a 60 persone. Il mio vagone era il piu’ piccolo ed era occupato da 45 persone. Un occupante il mio vagone potè leggere un cartello appeso all’esterno del vagone stesso che portava la scritta «Auschwitz», ma nessuno di noi sapeva il significato di questa parola, nè dove la localita’ si trovasse.

La nostra scorta viaggiava in un vagone particolare, non ricordo se in testa o in coda al convoglio, e non ricordo se era un vagone merci o viaggiatori; questo vagone conteneva anche le scorte per il viaggio. La nostra scorta era composta di uomini delle SS, almeno in parte: infatti le nostre condizioni psicologiche durante il viaggio non erano tali da permetterci di fare distinzioni. Mi è stato detto che nel 1945 ho deposto che almeno due del personale di accompagnamento erano SS del campo di Fossoli; puo’ essere che allora la mia memoria fosse piu’ fresca di adesso, in ogni caso a quel tempo ho cercato di rispondere nel modo piu’ veridico possibile. Non posso ricordare se l’ufficiale delle SS, che avevo visto a Fossoli, fosse con noi durante il viaggio sul pullman o piu’ tardi sul treno. I vagoni contenevano soltanto un po’ di paglia sul pavimento e nessun tipo di gabinetto e nessun secchio.

Nel nostro vagone c’erano alcuni bambini, e percio’ era disponibile qualche vaso da notte, per mezzo del quale potevamo liberarci degli escrementi attraverso la finestrella del vagone. Era possibile uscire dal vagone solo una volta al giorno, qualche volta in stazioni, qualche volta in aperta campagna. In entrambi i casi, i prigionieri dovevano adempiere ai loro bisogni personali pubblicamente, sotto i vagoni o nelle vicinanze immediate, e promiscuamente, uomini e donne. La scorta era sempre presente. Alla notte c’era appena lo spazio per dormire coricati per terra, su un fianco, e compressi l’uno contro l’altro. I vagoni erano privi di riscaldamento, e la brina si condensava all’interno.

Alla notte faceva molto freddo, di giorno si soffriva un po’ meno perchè ci si poteva muovere.  Per quanto riguarda l’alimentazione, ci era stato concesso di provvedere ad alcune scorte di pane, marmellata e formaggio, e acqua; il pane e la marmellata erano in misura sufficiente per non soffrire la fame, ma l’acqua era molto scarsa, perchè a Fossoli non possedevamo recipienti, percio’ tutti soffrivano gravemente la sete. La scorta ci proibiva di chiedere acqua all’esterno e di riceverne attraverso il finestrino.

Durante tutto il viaggio non ricevemmo alcun alimento caldo; solo durante la discesa quotidiana dal vagone, due o tre uomini per vagone venivano condotti dalla scorta al vagone delle provviste, per prelevarvi il pane e la marmellata per il loro vagone. Soltanto una volta, a Vienna, ci fu concesso di rinnovare la scorta d’acqua. Nel nostro vagone c’era un bambino ancora lattante e una bambina di tre anni. Anche per loro non vi fu nulla da mangiare se non la razione di pane e marmellata. Mi è stato detto che almeno un caso di morte ebbe luogo durante il viaggio; non ricordo se si trattasse di un uomo o di una donna. Questo dettaglio mi è stato raccontato da un mio amico medico, che faceva parte del trasporto. Il nostro convoglio termino’ il viaggio la sera del 26 febbraio, il treno si fermo’ alla stazione civile della citta’ di Auschwitz (non a Birkenau o non nel campo centrale). Appena fummo discesi dai vagoni, ebbe luogo una rapidissima selezione: furono formati tre gruppi.

Del primo gruppo, a cui io appartenevo, facevano parte 95 o 96 uomini adatti al lavoro; del secondo gruppo facevamo parte 29 donne adatte al lavoro; tutti gli altri furono giudicati non adatti al lavoro. Il numero delle donne adatte al lavoro in quel momento è stato da me soltanto valutato: dopo il rimpatrio ho pero’ avuto conferma dalle donne sopravvissute che si trattava proprio di 29. Gli uomini validi, di cui io facevo parte, furono trasportati con un camion quella notte stessa al campo di Buna-Monowitz. Il gruppo maggiore, costituito dai non adatti al lavoro (tutti i bambini, i vecchi e le donne con figli, i malati e gli inabili), furono caricati su camion e portati a una destinazione a noi sconosciuta.

Solo qualche mese dopo, quando nel campo di Monowitz io incominciai a capire il tedesco e a comprendere i discorsi dei miei compagni, mi resi conto che gli inabili al lavoro erano stati tutti soppressi nei giorni immediatamente seguenti all’arrivo: cio’ mi fu confermato dal fatto che dopo il mio ritorno in Italia nessuno di loro fu piu’ ritrovato nè giunse sua notizia.

Allego alla presente deposizione un mio appunto che consiste in una lista di 75 nomi che ho potuto ricostruire dopo il mio ritorno in Italia. Si tratta di 75 sui 95 o 96 uomini adatti al lavoro che entrarono con me nel campo di Monowitz. I nomi cerchiati sono quelli di coloro che sopravvissero alla liberazione, i nomi contrassegnati con T sono quelli che fecero parte del trasporto di evacuazione avvenuto nel gennaio 1945 da Auschwitz verso Buchenwald e Mauthausen; con S sono contrassegnati i nomi dei morti di selezioni; con M i nomi dei morti di malattia; e con L il nome dell’unico prigioniero morto dopo la liberazione e prima del rimpatrio. Di alcuni miei compagni ho potuto ricostruire il numero di matricola: le prime cifre di detto numero sono in tutti i casi 174. Il mio numero di matricola era: 174517.

Prima del mio arrivo ad Auschwitz non conoscevo i nomi dei campi di concentramento e i dettagli dello sterminio che vi aveva luogo; tuttavia avevo avuto notizie concrete sull’operazione di sterminio degli ebrei attraverso le fonti seguenti:
1. articoli comparsi sui giornali svizzeri, in particolare sulla Gazette de Lausanne, che durante la guerra era possibile leggere in Italia;
2. audizioni clandestine delle radio emittenti alleate, in specie Radio Londra;
3. un «libro bianco» pubblicato dal governo inglese sulle atrocita’ tedesche nei campi di sterminio, opuscolo che mi era pervenuto clandestinamente e che io stesso avevo tradotto dall’inglese in italiano;
4. vari colloqui avuti con militari italiani reduci dalla Russia, dalla Croazia e dalla Grecia, i quali tutti avevano assistito a maltrattamenti, uccisioni e deportazioni di ebrei da parte di tedeschi;
5. colloqui avvenuti nel 1942 fino al 1943 con ebrei profughi dalla Croazia e dalla Polonia che si erano rifugiati in Italia. In base a tutte queste informazioni, al tempo della nostra deportazione pensammo che il nostro destino sarebbe consistito in una prigionia molto dura, in un lavoro forzato, in una scarsa alimentazione ecc., ma non prevedevamo che in campo di concentramento si svolgesse un’azione di sterminio cosi’ metodica e su scala cosi’ grande.


Letto confermato e sottoscritto. 

Primo Levi 


[1971]


25 luglio 2021

la storia insegna?..


Non iniziò con le camere a gas. 

Iniziò con politici che dividevano le persone tra "noi" e "loro".

Iniziò con l'intolleranza e i discorsi d'odio.

E quando la gente smise di preoccuparsene,

divenne insensibile, obbediente e cieca.


(Primo Levi)



30 settembre 2020

Primo Levi e l'odio



Non sono facile all'odio: lo ritengo un sentimento animalesco e rozzo e preferisco che le mie azioni e i miei pensieri, nel limite del possibile, nascano dalla ragione. 
Per questo motivo non ho mai coltivato l'odio come desiderio primitivo di rivalsa, di sofferenza inflitta al mio nemico vero o presunto, di vendetta privata.
Devo aggiungere che, per quanto posso vedere, l'odio è un sentimento personale: è rivolto contro una persona, un nome o un viso.
I nostri persecutori nazisti non avevano viso, né nome: erano lontani, invisibili, inaccessibili; prudentemente, il sistema nazista faceva sì che i contatti diretti fra gli schiavi e i signori fossero ridotti al minimo.
Dopo la guerra, inoltre, il nazismo e il fascismo sembravano giustamente e meritatamente tornati nel nulla, svaniti come un sogno mostruoso, così come spariscono i fantasmi al canto del gallo. Come avrei potuto coltivare rancore o volere vendetta contro una schiera di fantasmi?
Non molti anni dopo, l'Europa e l'Italia si sono accorte che questa era un'ingenua illusione: il fascismo era ben lontano dall'essere morto, era soltanto nascosto, stava facendo la muta per ricomparire in una veste nuova, un po' meno riconoscibile e un po' più rispettabile, più adatta al nuovo mondo che era uscito dalla catastrofe della Seconda Guerra Mondiale, che esso stesso aveva provocata.
Devo confessare che davanti a certi visi non nuovi, a certe vecchie bugie, a certe figure in cerca di rispettabilità, a certe indulgenze e connivenze, provo la tentazione dell'odio con una certa violenza.
Ma io non sono un fascista: io credo nella ragione e nella discussione come supremi strumenti di progresso, e perciò all'odio antepongo la giustizia."

(Primo Levi)